Nel settembre 2003 Safinez Bousbia, una giovane studentessa irlandese di origini algerine, intraprende un viaggio ad Algeri per incontrare alcuni parenti e per tentare di tessere alcune trame interiori verso le proprie origini sconosciute. Nei vicoli della casbah di Algeri si innamora di uno specchio incorniciato artigianalmente ed entrando nella bottega di Mohamed el-Ferkioui scopre invece una di quelle storie che cambieranno la sua vita e quella delle persone ritratte in una vecchia foto del conservatorio di Algeri. É proprio El Hadj M’Hamed El Anka (considerato il leggendario fondatore della musica chaabi algerina) il maestro ritratto nella foto mentre dirige un nutrito numero di musicisti. Quando la ragazza chiede a Mohamed el-Ferkioui dove siano ora i musicisti dell’orchestra intuisce dal sospiro malinconico, e dalla risposta evasiva, che dietro questa vicenda si spalanca una storia di gioia e separazione in cui il tempo e la storia non hanno meno responsabilità delle vicende di una nazione. El Gusto (2011) è il tenace frutto della caparbietà di questa ragazza che ha impiegato più di sei anni della sua vita per ricercare, incontrare e riunire le trame sbrecciate di questa storia. La storia di uomini, musicisti, musulmani ed ebrei che vivevano come fratelli nel bel mezzo dei vicoli odorosi della casbah di Algeri e che hanno saputo sognare e suonare una musica che non smette di profumare i nostri padiglioni auricolari. Molti di loro non ci sono più, altri sono malandati dalla vita e dall’età, alcuni sono dovuti partire perché la propria religione non era più ben voluta dopo la guerra civile e l’indipendenza: ecco allora Parigi o Marsiglia ad accogliere questi pied-noirs. Il film documentario racconta questo disperato tentativo di rimettere insieme quest’orchestra riunendo oggi ciò che il tempo ha voluto dividere. Safinez Bousbia ci ha rimesso in salute e denaro, ma alla fine è riuscita a riannodare dei fili che gli occhi acquosi dei protagonisti non riuscivano più ad infilare nell’ago della propria esistenza. Non è bene che io sveli il lieto fine di questa storia ma piuttosto che mi soffermi sull’incanto di una musica che nacque nel ventre umido di una città mediterranea, mescolando la tradizione classica araba con gli effluvi andalusi speziati di flamenco e di musica di popolo. Musica e parole, canzoni di popolo graffiate sull’oud e sulla chitarra, baciate nervosamente dai violini appoggiati sulle cosce, canzoni che profumano di tè, caffè, rose e hashish. I primi dieci minuti del film spero ispirino il desiderio di vederne oltre. Il francese masticato dagli algerini non è poi così ostico da comprendere e, ancor più delle loro parole, parlano i loro occhi e le loro rughe. Alla fine l’emozione annoda pure le budella dello spettatore (le mie di sicuro) consolate però da una musica immaginifica, onirica e dal profumo ottundente. Buon ascolto e buona visione.
di Marco Borghesi
Il presente articolo è tratto da borguez (http://www.borguez.com/) ed è stato pubblicato pubblicato per la prima volta l'11 agosto 2012.
Marco 'Borguez' Borghesi si occupa del blog borguez (http://www.borguez.com/) da oltre un decennio e spaccia musica su uabab (http://www.borguez.com/uabab/). Trasmette e racconta musiche attraverso La radio uabab (http://radiosonora.it/programmi/musica/la-radio-uabab#.Vx9MpaOLTVo). Ascoltatore impenitente, curioso di musiche, onnivoro di suoni, rassegnato al vizio. Nel tempo libero si finge dipendente postale.