1. Da Paesi di emigranti
Noi Italiani dovremmo avere consapevolezza che, prima di essere diventati, da non molto, Paese di immigrazione, siamo stati, dopo l’Unità e per un centinaio di anni almeno, Paese di emigrazione. Non so se nella scuola di oggi si studi questa via crucis di milioni di nostri connazionali dandole la dovuta attenzione.
Come si può leggere nel saggio ‘L’Italia e l’economia mondiale dall’Unità ad oggi’ a cura di Gianni Toniolo in Collana storica della Banca d’Italia(1), nel 1861 l’Italia era un Paese arretrato, alla periferia della rivoluzione industriale europea. Pochi numeri bastano per descrivere la povertà assoluta del nuovo Regno. Il prodotto interno lordo (PIL) pro capite era più o meno pari alla media attuale dei quarantadue Stati africani più «ricchi» (The World Economy by Angus Maddison 2001) (2). L’aspettativa di vita alla nascita era di circa trent’anni(3), molto inferiore a quella odierna dei paesi meno sviluppati. L’arretratezza di quella formazione economico-sociale era cioè tale da non consentire condizioni di vita neanche a livello di sussistenza per tanta parte dei residenti nel territorio italiano. Non può sorprendere allora che, tra il 1861 e il primo ventennio del ‘900, con l’emigrazione nelle Americhe, poi tra il secondo dopoguerra e i primi anni 80 del secolo scorso, con l’emigrazione europea, abbiano lasciato il Paese 29 milioni di Italiani di cui quasi 19 milioni senza farvi più ritorno. I loro discendenti sono stati stimati, secondo il rapporto Migrantes 2011, tra i 60 e gli 80 milioni (4).
Come non ricordare, poi, che i paesi di accoglienza (si fa per dire) che pure avevano bisogno di loro per crescere, consideravano i nostri connazionali (impiegati nei lavori più umili, pesanti, pericolosi) una sottospecie umana da sfruttare ferocemente perché gli Italiani erano brutti, sporchi, cattivi e si potevano linciare (quanti episodi), vietarne l’ingresso nei locali pubblici insieme ai cani (5). Si poteva condannarli, innocenti, alla sedia elettrica, come nel caso di Sacco e Vanzetti, chiedendo scusa 50 anni dopo o farne oggetto di furto di invenzioni come ad Antonio Meucci, cui post mortem, soltanto nel 2002, una risoluzione approvata dal Congresso degli Stati Uniti d’America ha riconosciuto l’invenzione del telefono. Quanti ne sono morti sul lavoro: si pensi alla tragedia di Marcinelle in Belgio, quando la mattina dell’8 agosto 1956 in una miniera scoppiò un incendio e morirono 262 persone, tra cui 136 Italiani.
Dalla fine dell’Ottocento l’economia italiana ha iniziato un processo di convergenza verso le economie più avanzate, con le quali si è integrata in modo sempre più profondo e, dal secondo dopoguerra, con una accelerazione straordinaria, non a caso definita miracolo economico. Ma fino agli anni 70 del secolo scorso il saldo migratorio estero è stato negativo, causato dall’ancora elevato numero di coloro che uscivano dal Paese, non solo dalle regioni meridionali, ma da tutta l’Italia (molti dal Veneto) (6). Parallelamente con il decollo economico si è innestato anche il flusso migratorio interno dal sud al nord (cfr. ancora nota 6).
2. A Paese di immigrazione (7)
Dagli anni 80 comincia l’inversione del movimento migratorio, diventiamo paese di immigrazione. Si noti come i dati mostrano l’anomalia di Spagna e Italia, che all’inizio degli anni 80 del secolo scorso si differenziavano dagli altri per il più modesto peso della incidenza di stranieri. Un ‘ritardo’ recuperato in poco tempo. Per una analisi esauriente e aggiornata dell’immigrazione in Europa si veda nota (10).
3. La transizione demografica (11)
Con l’esaurirsi del baby boom del dopoguerra comincia a rarefarsi anche la popolazione in età da lavoro autoctona, cosicché la domanda soprattutto di professioni elementari delle imprese in tanti settori manifatturieri (sistema agroindustriale, edilizia, terziario, turismo), nonché per i bisogni delle famiglie (come colf e badanti) rimane inevasa. A questa domanda non è corrisposta, cioè, una offerta nazionale adeguata sia quantitativa che qualitativa: i giovani italiani, che sono sempre meno, non sono disposti a coprire i posti di lavoro elementari; pretendono di più, sono anche più istruiti ed inoltre da diversi anni preferiscono emigrare all’estero in cerca di quel lavoro qualificato che la struttura economica nazionale di piccole imprese non sa / non può offrire.
Così a quella domanda di professioni elementari (ma non solo) ha risposto l’offerta proveniente dai Paesi poveri extraeuropei (come è avvenuto per la povera Italia prima del boom economico del dopoguerra) e da quelli dell’est Europa dopo il crollo del socialismo. I residenti stranieri dai 211 mila del 1981 sono passati a oltre 5 milioni nel 2016. Tuttavia il tasso di crescita si è più che dimezzato, dal 12% medio annuo tra il 1991 e 2011 al 4% tra il 2011 e il 2016, risentendo della crisi. Riprendendo l’avvertenza della nota 8, occorre considerare che l’acquisizione di cittadinanza italiana12 ha interessato dal 2002 al 2017 un milione e 171 mila 250 individui in stragrande maggioranza non comunitari.
A riprova di quanto si diceva in precedenza si propongono due tavole sull’incidenza di italiani e stranieri nell’occupazione totale per professione e settori economici nel 2017 (per un approfondimento: nota 13). Si noti il maggior peso degli stranieri, rispetto agli italiani, nelle professioni non qualificate ma anche operaie, così come nei settori dell’agricoltura, delle costruzioni, dei servizi commerciali, degli alberghi e dei ristoranti.
Da diversi anni poi c’è anche il dramma della fuga dei richiedenti asilo dai paesi dilaniati da guerre, carestie, dalla desertificazione provocata dai cambiamenti climatici nell’Africa subsahariana (14). Da mesi si è verificato un rallentamento di questi afflussi: secondo i dati Frontex gli sbarchi sulle coste italiane lungo la rotta del Mediterraneo centrale si sono ridotti nel 2017 rispetto al 2016 del 34,4% e del 75,2% nel primo trimestre 2018. Dati più recenti15 di fonte Ministero degli Interni certificano che alla data del 19 / 06 / 2018 erano sbarcati 15.610 migranti rispetto ai 70.930 ( -77,9%) della stessa data nel 2017 (16).
Ma oggi ha ancora senso distinguere tra emigranti economici e richiedenti asilo? Che differenza passa tra morire ammazzato in una guerra civile oppure di fame, a causa della desertificazione dei terreni agricoli nei paesi della fascia subsahariana dovuta ai cambiamenti climatici? (ancora nota 14 ). È aperto il dibattito a cui vogliamo contribuire anche con questa pubblicazione.
L’Emilia Romagna e le sue province sono economie dove più intenso, rispetto all’Italia, è stato il flusso immigratorio per una più forte domanda di lavoro, dovuto al più forte invecchiamento e denatalità della popolazione autoctona.
I dati delle tavole seguenti mostrano che l’incidenza degli stranieri sui residenti e la domanda di lavoro di personale extracomunitario delle imprese in Emilia Romagna e nelle sue province negli anni 1999–2000 erano più alte di quelle del Paese.
4. Il case study della provincia di Ravenna
Anche a Ravenna l’immigrazione straniera è stata il fattore compensatore della riduzione della popolazione in età di lavoro, specie maschile, e della forza lavoro autoctona (che è stata comunque anche compensata dai flussi immigratori interni da altre regioni d’Italia).
Si notino anche le caratteristiche demografiche dei residenti stranieri confrontate con quelle degli italiani in provincia di Ravenna: l’indice di vecchiaia mostra che gli stranieri rappresentano una popolazione molto giovane e che ‘il peso’ di quella non attiva (che non produce reddito) in carico a quella potenzialmente attiva è molto inferiore.
I dati disponibili di fonte ISTAT certificano che dal 2012 al 2016 a Ravenna hanno acquisito la cittadinanza italiana 6.658 stranieri. Pertanto la dimensione del flusso emigratorio in provincia di Ravenna acquisisce una importanza maggiore come dimostra il saldo emigratorio estero cumulato di oltre 50.000 unità dal 1991 ad oggi.
I dati della tavola precedente mostrano anche il forte saldo migratorio totale di quasi 90.000 unità comprendente quello dall’estero e quello inter- no che ha compensato il saldo naturale negativo della popolazione autoctona, -32.390 unità, dovuto all’eccedenza delle morti sulle nascite sempre più decrescenti (dal 2009 al 2017 i nati sono diminuiti del 25%) e che, in atto da tempo, hanno ridotto la popolazione in età da lavoro tra i 15 e 64 anni. Ma questa compensazione è stata insufficiente perché, prendendo in considerazione i dati statistici relativi al periodo di sviluppo 1995-2007 precedenti le crisi del 2008-2009 dei mutui subprime e del debito pubblico del 2011-2012, a Ravenna, in Emilia Romagna e nel Paese la componente demografica che determina la variazione del reddito pro-capite è stata negativa, ovvero è mancata forza lavoro per alimentare le attività economiche.
È interessante notare come lo stock annuale delle rimesse degli immi- grati in provincia verso i Paesi di origine (dati fonte Banca d’Italia) sia stato ‘prociclico’, ovvero il suo ammontare abbia seguito le tendenze dell’eco- nomia e della occupazione: il grafico mostra che è stato crescente fino al 2008, calante in corrispondenza delle due crisi, 2009-2013, di nuovo crescente con la ripresa economica del 2014. L’immigrazione ha fornito, cioè, una forza lavoro molto flessibile, i cui livelli di occupazione hanno risposto strettamente alle esigenze delle imprese utilizzatrici.
In effetti il grafico seguente mostra forti oscillazioni degli occupati dipendenti di nazionalità straniera in corrispondenza del ciclo economico, a differenza degli occupati italiani.
Infatti: i lavoratori stranieri sono stati e sono occupati in misura maggiore dei ravennati con contratti a tempo determinato o part-time. Dal punto di vista professionale anche a Ravenna oltre la metà dei lavori non qualificati viene svolta dagli stranieri. Importante la loro presenza anche nelle professioni operaie (fino al 25 / 30%), nei settori delle costruzioni, dell’industria, dell’agricoltura e dei servizi (fonte Servizio Statistica Provincia di Ravenna). Significativo poi che, se ad inizio 2003 era modesta la quota di imprendi- tori (il 3% del totale, per il 60% impegnato nei settori delle costruzioni, del commercio e dei servizi pubblici), ad inizio 2018 questa quota si è più che triplicata, salendo al 9,3%, per due terzi in edilizia e terziario (fonte Camera di Commercio di Ravenna). Significativo il dato della loro incidenza rispetto al personale italiano nelle attività domestiche e di assistenza agli anziani, pari nel 2016 all’81,4% contro il 70% della media nazionale (fonte INPS).
5. La scuola multietnica a Ravenna (19)
L’incidenza degli stranieri nella scuola passa dal 2,4% dell’anno scola- stico 2000 / 2001 sul totale degli alunni (766 iscritti stranieri su 31.610), al 13,9% nell’a.s. 2016 / 2017:
Nella scuola primaria dal 3,1% al 16,5%, nella scuola secondaria di 1° grado dal 3,0% al 13,7% nella scuola secondaria di 2° grado, dall’1,4% all’ 11,0%.
Secondo le previsioni demografiche (20) la recente crisi della natalità (-20% tra il 2009 e il 2015) e la tendenza alla contrazione dei nuovi flussi (il saldo migratorio si è contratto di oltre il 60%), fa prevedere una contrazione della popolazione 0–23 anni del -1,2% tra il 2015 al 2025, e del -7% dal 2025 al 2035. Tra l’anno 2015 e l’anno 2025 si stima che la diminuzione interesserà principalmente i bambini fino a 10 anni; adolescenti e ragazzi tra gli 11 e i 23 anni, invece, dovrebbero continuare ad aumentare.
Sulla scia di questa contrazione, poi, tra il 2025 e il 2035, sarà soprattutto la popolazione tra 11 e 23 anni a diminuire.
6. Conclusioni
Come i dati ci hanno mostrato, è dal 2001 che più intensa è stata l’immigrazione in Italia e ancor più in Emilia-Romagna e in provincia di Ravenna. L’apporto allo sviluppo del reddito, di cui hanno beneficiato anche gli Italiani, è stato determinante perché ha compensato (se pur non sufficiente- mente) la riduzione della popolazione autoctona in età attiva. Così il presidente dell’Inps Tito Boeri, nella relazione annuale alla Ca- mera il 4 luglio 2018 ha dichiarato: ‘Il declino demografico è un problema molto più vicino nel tempo di quanto si ritenga. Ai ritmi attuali, nell’arco di una sola legislatura, la popolazione italiana, secondo scenari relativamente pessimistici, ma non inverosimili, potrebbe ridursi di circa 300.000 unità. È come se sparisse una città come Catania. Dimezzando i flussi migratori in cinque anni perderemmo, in aggiunta, una popolazione equivalente a quel- la odierna di Torino, appesantendo ancora di più il rapporto fra popolazione in età pensionabile e popolazione in età lavorativa.
Azzerando l’immigrazione, secondo le stime di Eurostat, perderemmo 700.000 persone con meno di 34 anni nell’arco di una legislatura.’ Anche in provincia di Ravenna, le proiezioni demografiche del Servizio Statistica della Regione Emilia-Romagna stimano, in assenza di ulteriore immigrazione e nonostante si ipotizzino una più alta sopravvivenza e una più alta natalità rispetto al 2015, un ulteriore calo della popolazione in età di lavoro nel 2025 e 2035 (21).
I dati sulla acquisizione di cittadinanza italiana dimostrano la volontà di integrazione nel nostro Paese di chi vi emigra, così come i dati dimostrano il numero crescente di studenti stranieri nelle scuole italiane ed, in particolare, dei molti nati in Italia. A questo proposito, a Ravenna abbiamo visto che il 67,4% degli studenti stranieri iscritti nelle scuole locali nell’a.s. 2016 / 17 era nato in Italia. Noi riteniamo la cittadinanza concessa ai bambini nati in Italia figli di immigrati uno spartiacque di modernità e di diritti. Si deve evitare che i bambini che cominciano il ciclo scolastico obbligatorio siano trattati come stranieri e abbiano meno diritti rispetto ai bambini nati in Italia da genitori italiani. Una vera innovazione di proposta di legge sulla cittadinanza rispetto a quelle precedenti poteva essere l’introduzione dello ius culturae: il principio che lega la cittadinanza al fatto di aver frequentato le scuole nel Paese dove si risiede prima dei 12 anni.
Purtroppo la questione della cittadinanza non è stata affrontata in Parlamento e ‘confusa’ con i flussi dei profughi sulle nostre coste, vissuti dal Paese come una aggressione, una paura strumentalizzata a fini politici. Eppure, come mostrato dai dati di FRONTEX (l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera), il flusso dei disperati che attraversano l’Africa aveva iniziato a ridursi drasticamente. Le statistiche avrebbero potuto rassicurare: sono importanti per capire la realtà (22). Ma è evidente che non bastano, soprattutto quando c’è carenza di informazione. Per vincere la sfida e la paura serve anche una nuova cultura della diversità, in grado di andare oltre la tolleranza e riconoscere in chi è diverso un potenziale valore aggiunto all’interno di un processo di crescita comune.
Se non seguiamo come Paese questo percorso, continueremo a subire l’immigrazione, anziché renderla parte integrante della costruzione di un comune futuro migliore.
Paolo Montanari
Laureato in Scienze politiche all’Università di Bologna, funzionario e dirigente dal marzo 1979 al febbraio 2014 presso la Provincia di Ravenna. Si è occupato di politiche di sostegno alle attività artigiane, piccolo-industriali, alla occupazione, alla ricerca sperimentale e universitaria, nel quadro di programmi Regionali e dell’Unione Europea. Ha rappresentato la Provincia in società pubblico-private operanti in queste aree. Dal 2000 è stato Dirigente del Servizio Statistica. Nel 2010, in occasione della conferenza economica provinciale, ha curato la pubblicazione del dossier ‘La Provincia di Ravenna: demografia, lavoro, sviluppo economico, territorio’. Un suo contributo è inoltre presente in Viaggio nell’archeologia industriale della provincia di Ravenna, a cura di Italo Zannier, Longo editore, 1996.
Note
(1) www.bancaditalia.it/pubblicazioni/col- lana-storica/italia-economia-mondiale/
(2) www.stat.berkeley.edu/~aldous/157/Pa- pers/world_economy.pdf
(4) https://it.wikipedia.org/wiki/Emigrazione_italiana
(5) https://it.wikipedia.org/wiki/Pregiudizio_contro_gli_italiani(6) http://seriestoriche.istat.it/index. php?id=1&no_cache=1&tx_usercento_centofe%5Bcategoria%5D=2&tx_ usercento_centofe%5Baction%5D=- show&tx_usercento_centofe%5Bcontroller%5D=Categoria&cHash=- 5dc94093f50e10c9e55a034d4c6ba123
(7) https://www.bancaditalia.it/pubblica- zioni/qef/2018-0431/QEF_431_18.pdf
(8) Questi dati sottovalutano l’incidenza degli immigrati di origina straniera in quanto sono al netto dell’acquisizione di cittadinanza. Nel 2016 si è trattato di 994.800 unità in tutta l’Unione Europea. http://ec.europa.eu/eurostat/statistic- sexpladex.pined/inhp/Acquisition_of_ci- tizenship_statistics
(9) http://ec.europa.eu/eurostat/data/database
(11) I demografi hanno categorizzato le tendenze demografiche sulla base delle 17 relazioni fra tassi di natalità e di mor-
talità, individuando due regimi demografici fondamentali: un regime demo-grafico tradizionale, caratterizzato da alti tassi di natalità e alti tassi di mortalità (soprattutto infantile); un regime demografico moderno, caratterizzato, viceversa, da bassi livelli sia di natalità che di mortalità. Quando si passa da un regime all’altro, si ha una transizione demografica.
La normativa italiana attualmente in vigore legge 91/1992 prevede diversicasi di acquisto della cittadinanza, alcuni automatici ed altri subordinati al verificarsi di determinate condizioni, alla dichiarazione di volontà e ad una decisione dell’Autorità. In particolare, si può diventare cittadino italiano per: attribuzione automatica (ex. nascita, adozione, riconoscimento o dichiarazione giudiziale di filiazione, ecc.); beneficio di legge ( discendenza, nascita e continuata residenza, ecc.); naturalizzazione https:// www.esteri.it/mae/it/serviz/stranieri/ cittadinanza_0.html 21