Non ho mai pensato che un giorno mi sarei ritrovata a essere una “migrante”.
Quando la Royal Academy of Music mi invitò nel dicembre 2001 a venire a Londra per frequentare un prestigiosissimo corso di postgraduate nella storica accademia, la sola cosa che avevo nella mente era di aggiungere un onore in più al mio curriculum di artista concertista. In musica non si parla di “migranti” ma di “artisti internazionali” che diventano più importanti in proporzione a quanti più paesi e continenti richiedano la loro arte.
L’idea però mi sfiorò la mente quando, al viaggio di ritorno a Londra dopo la vacanza di metà trimestre, mi ritrovai con una valigia piena di bontà italiane (ed in particolare della mia città Modena come il salame felino, il parmigiano, l’aceto balsamico…) e il parallelo con la valigia dei connazionali che lasciarono l’Italia cento anni prima era abbastanza palese. Sorrisi pensando che, a differenza dei connazionali migranti dell’inizio del secolo precedente, non lasciavo l’Italia perché senza alternative o vie di scampo.
Gli anni passano. Pensavo di restare un solo anno di postgraduate, poi due, poi tre, poi l’offerta di un master in concertismo a Parigi e l’idea che era più facile fare la pendolare Londra-Parigi con l’Eurostar due volte al mese piuttosto che trasferirsi di nuovo. Londra del resto offriva ogni giorno cose sempre più interessanti, mentre la Francia alla fin fine era troppo simile all’Italia e se dovevo essere fuori sede almeno che lo fossi in un paese e in una cultura veramente diversi da noi. Avevo poi imparato ad adagiarmi sull’educazione britannica: il saper fare la coda, il parlare a voce bassa nei luoghi pubblici per non disturbare tutti, addirittura lo scusarsi nel mezzo di una litigata telefonica se una parolaccia scappava davanti a un bambino che passasse accanto per caso.
E poi Brexit! Un colpo al cuore! Un colpo all’intelligenza di un paese che sembrava esser sopravvissuto alla crisi del 2007 meglio del resto dell’Europa e che con un referendum dal margine illegale aveva deciso di buttare tutto all’aria e tuffarsi nel caos insieme agli altri. Non ci credeva nessuno. Per tre anni la gente ha marciato, ha litigato, ha divorziato, ha fatto causa alla Corte Suprema per bloccare la Brexit così tante volte che non me lo ricordo nemmeno. E fino all’ultimo ho creduto nella fine della Brexit, nella revoca dell’articolo 50, nel rinsavimento di un paese che avevo imparato a rispettare ed amare in ben diciassette anni di “convivenza”.
E poi la vittoria di Boris Johnson. La stra-vittoria di Boris Johnson…
Siamo rimasti tutti ammutoliti.
La campagna elettorale è stata intensa, con colpi molto duri all’immagine e alla credibilità non solo di Boris Johnson, ma di tutto il Tory Party. Invece, nonostante le rivelazioni inquietanti sulle bugie e i piani nascosti a danno di tutti, non solo Boris ha vinto, ma ha vinto con un vantaggio storico impensabile dai tempi della Thatcher! Il caso ricorda la vittoria di Trump sulla Clinton: la voce comune era che la mancata simpatia personale per la Clinton avesse portato gli indecisi a votare per l’opposizione. Simili voci dicono quindi che la vittoria di Boris su Jezz (Jeremy Corbin) sia stata dettata dalle stesse ragioni.
In questo clima, la sera delle elezioni generali ero ad un evento organizzato dalla Women's and Men’s Radio Station per cui presento il mio programma Future Classic Womens Awards, e qualcuno mi ha chiesto se vivendo a Londra da diciasette anni consideravo adesso UK my home.
Senza pensarci ho risposto “NO”.
Home, come dicono gli Inglesi, è il luogo a cui ti senti di appartenere, è dove quando manchi da un po’ ti senti homesick, nostalgico e desideroso di ritornare… Come poter pensare di appartenere a un luogo che ha deciso di distanziarsi dal resto dell’Europa, di aver nostalgia per un luogo che ha votato per rompere il ponte che li univa a noi? Le differenze sono parte integrante e specifica di ogni individuo, di qualunque genere, religione, colore, nazionalità, classe sociale… Le differenze sono infinite, sono la bellezza del genere umano in qualunque parte del mondo.
Londra era home finché gli inglesi trovavano le differenze “esotiche e affascinanti”. Adesso che la differenza è una scusa per parole scortesi, per sguardi indesiderati, per gesti inopportuni, per paure storicamente dimenticate, adesso non mi sento più a casa, né qui né in qualunque altra parte del mondo, inclusa l’Italia, dove non sono vista per i miei valori, i miei risultati e le mie ambizioni artistiche, ma dove sono giudicata per la bianchezza della mia pelle (che a quanto ho scoperto è diversa dalla bianchezza britannica), dal colore dei miei occhi/capelli o dall’accento della mia lingua.
Per ritornare dunque alla questione iniziale, all’idea di diventare migrante: a dicembre ho superato l’esame per la cittadinanza britannica. Nel testo di studio per l’esame, tra i britannici illustri nella storia c’era George Frederic Haendel, compositore tedesco naturalizzato britannico dopo quindici anni di vita a Londra. Un senso di rinascita mi bisbiglia nella mente, una speranza che mi salvi dall’incertezza del futuro con la mia famiglia britannica, un’illusione che la parola “migrante” non mi appartenga.
Stefania Passamonte
Stefania Passamonte è una pianista modenese che vive a Londra. Concertista, direttore musicale e imprenditrice, è membro votante della Recording Academy per i Grammys Awards di Los Angeles e dei BRITS Awards. Dal 2018 è anche autrice e conduttrice del programma radio “Future Classic Women Awards” alla Women’s Radio Station. Vincitrice nella categoria Classica dei Global Music Awards e degli Akademia Awards di Los Angeles, i sui dischi sono stati scelti dai Grammy Awards come “miglior solista” e “miglior album” della Classica.