Sono trascorsi due anni dalla scomparsa, improvvisa e precoce, di Alessandro Leogrande, scrittore e giornalista, autore di alcuni testi fondamentali per la riflessione e l’analisi del fenomeno migratorio.
Il suo sguardo acuto e la nettezza della sua parola ci mancano molto, ma quel che lo rende davvero insostituibile è la capacità di dare testimonianza ponendosi in relazione con le persone incontrate, con la complessità del loro vissuto, del loro percorso, in una narrazione che lega la dimensione storica a quella politico-sociale. Nascono così opere fondamentali come "La frontiera" (Feltrinelli 2015), che alla lucidità dell'analisi unisce una modalità di narrazione divenuta fra le più interessanti degli ultimi anni, quella del reportage letterario, sulla scia di Kapuscinski e Aleksievich.
E così l'unico modo per raccontare la frontiera, il confine è farsi viaggiatore. Perché è il viaggio la chiave delle migrazioni, cioè il passaggio non solo fisico (e spesso drammatico) tra la vita di prima e una nuova vita solo immaginata, tra un prima e un dopo, tra un "al di qua" e un "al di là".
Bisogna farsi viaggiatori per decifrare i motivi che hanno spinto tanti a partire e tanti altri ad andare incontro alla morte […] Ascoltare dalla voce di chi ha oltrepassato i confini come essi sono fatti. Come sono fatte le città e i fiumi, le muraglie e i loro guardiani, le carceri e i loro custodi, gli eserciti e i loro generali, i predoni e i loro covi. Come sono fatti i compagni di viaggio, e perché - a un certo punto - li si chiama compagni.
Come sono fatte le barche.
Come sono fatte le onde del mare.
Come è fatto il buio della notte.
Come sono fatte le luci che si accendono nell’oscurità.
La terra e il cielo di prima non ci sono più laddove un nuovo cielo e una nuova terra si stagliano davanti ai loro discorsi […] È la frontiera […] La frontiera corre sempre nel mezzo. Di qua c’è il mondo di prima. Di là c’è quello che deve ancora venire, e che forse non arriverà mai. (da "La frontiera")
Farsi viaggiatore significa soprattuto, per Leogrande, ascoltare le storie dei migranti, porsi al loro fianco facendo attenzione all'unicità delle loro esperienze, alla singolarità di ogni storia, che la rende per questo universale.
Attraversare mezzo mondo per ritrovarsi in Europa non è solo un fatto geografico, non riguarda soltanto le dogane, le polizie di frontiera, i passeurs, gli scafisti, i trafficanti, i centri di detenzione, le navi militari, i soccorsi, gli aiuti, i tir, le corse e le rincorse, gli stop e i respingimenti. Non riguarda solo questo, benché tutto questo possa coincidere, per molti, con l’evento saliente della propria esistenza. Ha a che fare innanzitutto con se stessi. Saltare i muri è innanzitutto un’esperienza individuale. (da "La frontiera").
Tante le storie documentate in "La frontiera", molte attualissime nella loro tragicità, come se Leogrande avesse potuto prevedere i naufragi e le morti degli ultimi mesi
"E perché allora i naufragi?" aveva insistito Cecilia. "Perché insisti a voler raccontare i naufragi?" (...) tutti quei morti, quella mattanza continua... e il silenzio che l'avvolge. Ecco, il silenzio. La vera risposta è il Silenzio". (da "La frontiera").
Katër I Radës. Il naufragio è forse la risposta più forte a quel silenzio, è dar voce all'oblio che circonda le vicende legate ai molti barconi di migranti dispersi nel Mare nostrum. È un opera da camera dei Cantieri Teatrali Koreja, su commissione della Biennale di Venezia 2014, di cui Leogrande ha scritto il libretto rielaborando il proprio romanzo-reportage "Il naufragio" con le musiche di Admir Shkurtaj. La coproduzione Ravenna Festival, Teatro Alighieri di Ravenna, Teatro Comunale di Ferrara, dopo l'appuntamento ravennate del 18 aprile scorso, la presenta il 19 dicembre a Ferrara.
Si tratta di un lavoro complesso, in cui alla necessaria opera di trasmissione della memoria di un evento si unisce la volontà di dar voce all'universo di "sommersi e salvati", di chi è andato incontro a una delle infinite tragedie del Mediterraneo, quella di una piccola motovedetta albanese, carica di uomini, donne e bambini scomparsa nel golfo di Otranto nel marzo 1997, speronata da una motovedetta italiana. 81 i morti, 27 i dispersi, 34 i superstiti. Una "piccola storia" che, grazie allo straniamento prodotto dall'alternarsi delle lingue (il dialetto di Valona dei migranti alternato all'italiano dei militari), alla musica che pare prodotta dallo stridio delle lamiere devastate dallo scontro a cui si alternano evocazioni di suoni acquatici, alla scenografia che coinvolge il pubblico nell'angoscia dell'affondare, consegna questo evento alla memoria collettiva.
Chi può vada. Partecipare è un atto di impegno civile.
Carla Babini
Docente e formatrice di lingue straniere in Italia e di italiano all’Università di Vienna, dal 2001 al 2016 è stata poi Addetta culturale per il Ministero degli Affari Esteri presso gli Istituti di Cultura di Vienna, Monaco e Londra. Si è occupata di promozione della lingua e cultura italiane, con focus su letteratura, storia contemporanea, cinema, teatro ed arti visive. Ha collaborato al progetto Tracce migranti - Nuovi paesaggi umani. È autrice di numerosi saggi e traduzioni in ambito linguistico, letterario, interculturale, fotografico ed artistico.